venerdì 21 settembre 2012

ISLAMOFOBIA, ERDOGAN E "LINGUAGGIO DELL'ODIO"



A partire almeno dall’undici settembre in occidente si è diffusa una paura dell’islam che a volte sfiora il ridicolo, spesso entra nel tragico. Certo gli attentati terroristici sono una realtà, ma che rappresentino davvero un pericolo per l’occidente è tutto da dimostrare. Soprattutto i terroristi, i talebani, al qaeda, chiamateli come vi pare, hanno scarsissimo seguito nell’oriente musulmano; e quando ce l’hanno è perché sono l’unica forza che si oppone, con la violenza, alla violenza dello straniero colonizzatore (che saremmo noi). Ma quel che più conta è che questa paura, dall’America all’Europa è diffusa e creata ad arte, non solo contro gli islamici ma anche contro gli extracomunitari, gli omosessuali ecc.

domenica 9 settembre 2012

"OCCUPAI" WALL-STREET

Alberto Arbasino
Sulla Repubblica di ieri, sabato 8 settembre, a pagina 26, si legge una brevissima frase mandata in qualità di lettore da Alberto Arbasino, che osserva:

"OCCUPY" si pronuncia, come è noto, "occupai". Ma in italiano, non è un passato remoto?

L'intento è provocatorio. L'idea parte dal mondo anglosassone, con la famosa iniziativa "occupy wall-street", ed è subito rimbazata in tutta Europa, e in Italia, con la manifestazione che a suo tempo fu chiamata "occupy Roma". Ma, sembra chiedersi Arbasino, perché dire "occupai Roma", quando lo si sta (stava) facendo adesso e non in un passato remoto; lo si sta facendo in tanti, e non uno da solo ("occupai" è prima persona), e lo si fa nella speranza, per di più, che la cosa si ripeta nel futuro? Meglio il presente "occupiamo", che ha un valore continuativo, di cosa fatta regolarmente. 

Provocazione abbastanza fine a se stessa, ma interessante in quanto forse dimostra che timidamente le menti italiane cominciano ad accorgersi della maladirezione intrapresa (linguisticamente, ma anche, ed è più importante, politicamente) e cominciano, forse, timidamente, a pretendere una propria identità, una propria diversità, una propria indipendenza di pensiero; cioè un'indipendenza linguistica.

O no?

Ant.Mar.

sabato 8 settembre 2012

PIGS: STORIA DELLA PAROLA E QUESTIONI EUROPEE



I PIGS, qui con Irlanda, senza Italia.

Da qualche anno sui giornali si trova il termine PIGS, che tutti ormai riconosciamo come acronimo di Portogallo-Italia-Grecia-Spagna: quei paesi che vivono attualmente una crisi economica che rischia di spazzarne via le ricchezze, i servizi, persino molti diritti individuali e collettivi. Ma simultaneamente l’acronimo PIGS viene riconosciuto da tutti (o quasi) anche come “pigs”, "maiali" in inglese. Difatti, anche se sui giornali italiani si trova spessissimo, l’acronimo ha assunto, fin da subito, proprio in virtù della sua doppia lettura, un valore negativo, dispregiativo verso quei paesi cui si riferisce.

“PIGS, PIIGS (o GIPSI), PIIGGS e PIGGS sono acronimi utilizzati da giornalisti economici, per lo più di lingua inglese, per riferirsi a diversi paesi dell'Unione europea. Si tratta di acronimi dispregiativi ma usati anche come termini tecnici, con cui si accomunano paesi contraddistinti da situazioni finanziarie non virtuose.”

Facciamo una breve storia di questa parola. L’acronimo PIGS, pare abbia cominciato a circolare sui giornali in lingua inglese dagli anni novanta, indicando fin da subito -stando a Wikipedia in italiano e in inglese, i francesi non sono d'accordo- i quattro paesi del mediterraneo che abbiamo detto. Tra parentesi è interessante notare che il modello europeo attuale, cioè Franco-tedesco, non regge proprio in quei paesi organizzati diversamente, per varie ragioni culturali e storiche: i paesi mediterranei. Più tardi la I di Italia è stata affiancata a un’altra I, di Irlanda, (PIIGS) o sostituita con questa. Più recentemente ancora è stata aggiunta una G (PIGGS o PIIGGS), di Gran Bretagna.

Ufficialmente, però, la parola è in un certo senso “morta” nel 2008, cioè quando i portoghesi e gli spagnoli si sono indignati. Si sono indignati perché, come riporta ancora Wikipedia:

PIGS è un termine dispregiativo e razzista; a causa di questa connotazione, il quotidiano Financial Time e la banca Barclays Capital hanno deciso di bandire l'uso del termine.”

Quindi, anche se per questioni extralinguistiche, ecco un'altra parola che gli inglesi non usano, ma gli italiani sì. La cosa interessante è notare che la Spagna e il Portogallo non ci sono stati, a farsi chiamare “maiali”; mentre gli italiani, forse per un certo (giustificato) senso di colpa, ma anche per abituale servilismo di fronte al mondo anglosassone, sono stati al gioco. Pure questioni anglosassoni, il famigerato "politicamente corretto" da noi, per fortuna, non ha mai attecchito. Ma è solo questione di "correttezza"? È interessante, dico, chiedersi perché la polemica da noi non è arrivata, o è arrivata in maniera molto ovattata, e con toni comunque sottomessi. Cito un articolo antico del Sole24ore, che prende spunto, per far notizia, da uno scritto in cui un economista inglese sostituisce la I di Italia con quella di Irlanda invece di metterne due, come fanno altri. Ovviamente la scelta è dettata dai temi toccati dal giornalista inglese, che non parlava dell’Italia. Ma per noi, tanto basta per titolare fieri: “L’Italia esce dal club dei Pigs”. Il giornalista del Sole24ore conclude:

“Bontà loro... È ingenuo pensare che sia possibile anche solo inquadrare i problemi economici con un gioco di parole, per qualcuno forse divertente, per altri puerile. È pure ingeneroso: la Gran Bretagna è stato l'ultimo grande europeo a uscire dalla recessione, non ha conti pubblici in ordine e ha visto il suo modello di sviluppo andare in frantumi. Gli Usa hanno causato la crisi e hanno un deficit mostruoso. Un po' di modestia non guasterebbe.
vignetta sui PIGS, con Italia e Irlanda

Il tono è decisamente più pacato, di chi accetta con deboli obiezioni; rispetto a spagnoli e portoghesi che direttamente accusano gli anglosassoni di razzismo, anche con affermazioni chiare di uomini politici di primo piano (cfr Wikipedia). Noi italiani abbiamo invece, fin da subito, adottato la parola, come abbiamo fatto con molte altre dall’inglese; e continuiamo a usarla, siamo rimasti soli, ma continuiamo. È una parola dispregiativa contro noi stessi, ma continuiamo a usarla, alla faccia delle polemiche. Questo è un buon indizio, mi pare, della nostra volontaria e devota sottomissione alla cultura dominante, quella anglosassone.

Dall’altra parte, però, bisogna osservare che anche gli anglosassoni ci mettono del loro, dimostrando ancora una volta il loro disprezzo per la cultura latina. È vero che sono proprio i paesi del mediterraneo a soffrire di questa crisi, ma proprio per questo è lecito chiedersi se non sia un errore di sistema, visto e considerato che i PIGS hanno marcati tratti culturali in comune; domandarsi se non ci sia troppa “germania” nel modello di mercato europeo, che per questo non ha retto nei paesi latini. Inoltre, mi si dica pure che esagero, sono i paesi del mediterraneo a vedere la loro sovranità minacciata in nome di un’unione (quella europea); e questi stessi paesi stanno subendo, da anni ormai, e da più lati, una vera campagna denigratoria. Ci dicono di "fare i compiti", minacciano di mandare ispettori esterni in Grecia... È forse un po’ forzato rapportare il sud dell’Europa al sud dell’Italia e a come venne defraudato di tutto, in nome dell’unità (d'Italia)?

È forzato vedere nel termine PIGS un equivalente internazionale del termine “terroni”? Forse no, se andiamo a vedere in che modo è stata sostituita, dagli anglosassoni, la parola che spagnoli e portoghesi tanto veementemente hanno criticato: “GIPSI”. L’acronimo è lo stesso; non c’è più la questione della I, se sia Italia o Irlanda: sono tutte e due. Eppure ricorda in modo inequivocabile “gipsy”; zingaro, in inglese. A prima vista si potrebbe obiettare che, proprio per la doppia I, ormai l’Irlanda è inclusa inequivocabilmente nel gruppo dei maiali. E l’Irlanda certo non è un paese mediterraneo… No; ma è uno dei paesi europei che con più forza ha osato opporsi a certe basi costitutive di QUESTA Europa. È l’unico paese, l’Irlanda, a parte quelli del sud, con una forte presenza cattolica; ossia in cui la religione ha ancora ("purtroppo" è un altro discorso) un peso nelle scelte degli stati, delle masse, dei singoli. Il che vuol dire una società e una mentalità formate in un certo modo, diverso dal modello anglo-protestante che domina l’Europa attuale. non più "terroni" (PIGS) ma poveracci, diversi e disprezzabili GIPSI. Anche l‘Irlanda; anche lei fa parte degli inassimilabili e, per questo, fastidiosi zingari.

A questo punto, dato che anche il secondo acronimo sa di insulto (insulto ancor più grave e più razzista, che implica anche gli zingari) ci si potrebbe forse arrendere alla potenza del linguaggio, che crea parole e sensi dove a priori non ce ne sono. Autoaccusarci de dietrologia e perbenismo. Oppure si potrebbe dar ragione agli spagnoli, che ritengono il termine razzista, e smettere di usarlo; e non tanto perché anche Gran Bretagna e America hanno problemi di bilancio; ma perché dobbiamo prendere consapevolezza che è il modello che ci hanno -e che ci siamo- imposti, non si applica ai nostri paesi, quelli latini. Con questa coscienza si potrebbe, se noi volessimo, e se volesse anche la controparte, partecipare attivamente, da pari, al dibattito a Bruxelles, e spingere l’Europa del sud verso il suo carattere reale: mediterraneo, con i pro e i contro di questa civilizzazione. Con i pro (che sono tanti) e i contro del contatto con paesi diversi da noi.

Unità e omologazione non sono la stessa cosa. Uguaglianza dell’individuo (o della nazione) di fronte agli altri, non implica necessariamente uguaglianza di tutti di fronte a un modello unico (quello, ovviamente, del più forte), non implica l’omologazione.

Ant.Mar.

mercoledì 5 settembre 2012

A CHE PRO INSEGNARE INGLESE A SCUOLA?



Logo dell'ERA

Il 10 agosto 2012 il segretario dell’Associazione Radicale Esperanto (Esperanto Radikala Asocio; ERA) Giorgio Pagano ha pronunciato un discorso interessante e giusto, tranne che su alcuni punti. L’ottica da cui esamina la questione della lingua italiana, in particolare per quel che riguarda l’economia linguistica, è basata sulle idee dell’associazione che rappresenta, che si batte per l’imposizione dell’esperanto come lingua internazionale. Abbiamo già trattato su questo giornaletto il tema nell’articolo “inglese vs esperanto”. Riassumendo, in quell’articolo cerchiamo di spiegare le condizioni per cui non è verosimile che l’esperanto venga mai eletto a questo ruolo. Il problema è che questi militanti non considerano la lingua nelle sue reali implicazioni politiche e persino militari; non si rendono conto cioè che le lingue prestigiose, che vengono prese come lingue internazionali, lo sono in quanto portatrici e rappresentanti della cultura dominante in un preciso dominio storico. Dominante non solo e non per forza militarmente, ma spesso; sempre dominante economicamente; che vuol dire anche culturalmente. Il fiorentino in Italia sicuramente si è imposto per il prestigio datogli dalle "tre corone"; ma bisogna pure sempre tener presente quale potenza economica fosse Firenze e la Toscana allora in Europa e (quindi) nel mondo.  

G. Pagano. Sergretario dell'ERA
La lingua è quindi fortemente legata a questioni della società, della politica, dell’economia. Proprio sul potenziale economico dell’incoraggiamento nell’uso e nell’insegnamento della lingua italiana parla l’intervento di Giorgio Pagano; che tra l’atro dice:

“L'Italia non può continuare a favorire invece il processo di scalata inglese distruttiva della lingua italiana, con gli enormi costi di risorse umane e finanziarie che vanno ad ingrandire sempre di più il mercato anglo-americano e a restringere inesorabilmente quello italiano e dei nostri giovani, costretti ad impiegare 12.000 ore della loro vita per favorire il monopolio linguistico inglese e a sfavorire la loro stessa lingua".

Che il “processo di scalato inglese” sia distruttivo per la lingua italiana, è un’idea che mi trova d’accordo, anche se gran parte dei linguisti accademici non lo sarebbe. Io stesso inviterei alla prudenza; “distruttivo” non lo è ancora; lo sarà presto se la tendenza continua così forte e senza nessun ente che funga da filtro (non di controllo) come hanno le altre lingue europee. Ma lanciare l’allarme è una cosa che mi sembra giusta e doverosa, e che nel mio piccolo faccio, in questo spazio. Quanto segue, delle parole di Giorgio Pagano, è assolutamente giusto, e per di più evidente: il mercato “in italiano” è tutta una fetta di mercato che è penalizzata dall’anglicismo imperante. Ma sarebbe vero se gli italiani sapessero l’inglese! Cosa che - è sotto gli occhi di tutti - non è. E i turisti per primi se ne lamentano. Prova ne sia che il regolamento di twitter, per gli utenti italiani, è tradotto (leggi articolo). Cioè, si è creato del lavoro, c’è stato bisogno di un servizio.

Più avanti Giorgio Pagano sembra suggerire allora che non si insegni altro che l’italiano, sai quanto lavoro! quando afferma che: 
“La Gran Bretagna sul non insegnamento della lingua straniera nelle proprie scuole risparmia 18 miliardi di Euro l'anno, mentre l'Italia ne spende 60, di miliardi l'anno, per colonizzare la mente dei propri giovani nella sola lingua inglese.”

Molti neuro-linguisti affermano che sapere una lingua straniera aumenta la capacità di riflessione metalinguistica e quindi la conoscenza interna (o intima) della propria lingua materna; gli italiani, infatti, di questa consapevolezza ne hanno ben poca. Proprio per questo, d’altronde, non abbiamo le difficoltà che hanno spagnoli francesi greci portoghesi tedeschi ecc ad accettare parole straniere non adattate. Sarebbe quindi auspicabile che accanto a un insegnamento migliore della lingua italiana nelle scuole italiane si insegni, più degnamente di quanto non si faccia oggi, anche le lingue straniere; e, perché no, i dialetti e la letteratura dialettale migliore di tutte le regioni. "Colui che non sa le lingue straniere, non sa nulla della propria." (Johann Wolfgang von Goethe)

un volantino dell'ERA
Se la Gran Bretagna, che non ha un sistema vero di istruzione pubblica, vuole far restare ignoranti i propri cittadini questi sono affari suoi; d’altra parte gli inglesi, forse è sfuggito a qualcuno, parlano inglese. Cosa dovrebbe fare l’Italia? Non insegnare l’inglese nelle scuole, per risparmiare soldi? Ma siamo seri, per favore! È FONDAMENTALE che si insegni inglese a scuola; anzi, lo si insegna poco! E bisognerebbe anche farci studiare una seconda lingua straniera, magari meno approfonditamente, darci un infarinatura anche di spagnolo, o francese, o tedesco, o greco moderno. Una seconda lingua proprio per non “colonizzare la mente dei propri giovani”; cosa che accadrebbe se insegnassimo solo l’italiano. Cosa che accade quando, insegnando l’italiano, non facciamo alcun accenno ai dialetti e alle letterature dialettali.

Ma, ancora, ha ragione Giorgio Pagano a lanciare un allarme: non c’è pericolo che si smetti di insegnare inglese; il pericolo è che si smetti di insegnare (in) italiano! Come chi legge saprà, una delle proposte più spaventose dell’attuale ministro della pubblica istruzione Francesco Profumo è quella di istituire dei corsi interamente in inglese per attirare studenti stranieri. Roba da far tremare le ginocchia. Qui davvero si può usare la parola colonialismo.

Solo che il nostro è un colonialismo quasi autoimposto; “quasi” perché le pressioni anglicizzanti sono certamente forti; ma noi, in Italia, le accettiamo immediatamente e in certi casi, come questo, ce le inventiamo noi, queste pressioni. Credete forse che per attirare studenti stranieri la Francia, o la Spagna, facciano corsi in inglese? Lo fanno, e solo per le materie economiche, gli svedesi, e altri popoli che non hanno una forte tradizione linguistica; cosa che oi italiani infatti abbiamo solo a metà; solo per iscritto. E lo fanno i cinesi, che per attirare gli occidentali, davvero non possono pretendere che sappiano il cinese tanto bene da seguire un corso universitario.

Andare, per un italiano, a studiare all’estero è anche un occasione per imparare veramente una lingua straniera. Quello di cui non ci rendiamo conto è che i tedeschi, i francesi, gli spagnoli, che vengono in Italia a studiare, vengono anche loro per conoscere una lingua, una cultura, diversa. E i turisti, che vengono in Italia, in senso metaforico, non cercano pizzahut; ma la Pizza. Come noi a Parigi cerchiamo le crepes.

Una volta un francese mi chiese come si dice “ordinateur” in italiano. Gli risposi “computer”, e lui ne rimase stupito, un po’ divertito-un po’ infastidito; mi ricordò la reazione di una ragazza americana, una volta, nell’accorgersi che di fronte al Pantheon, a Roma, ci abbiamo piazzato un bel Mcdonald’s. Mi disse che a lei, da straniera, sarebbe piaciuto trovarci una specie di “pizza-pasta fast-food” … (vabbè, gli americani…).

Counque sia, l’italiano non si protegge non insegnando l’inglese; ma insegnando meglio l’italiano e di più l’inglese. Dividerli, ognuno nella propria bellezza e potenza di lingua; avere coscienza di entrambi come di due idiomi distinti, di modo che, forse, sviluppando meglio la riflessione metalinguistica, saremo meno pigri nella traduzione e eviteremo certi inutili intrusi nella nostra lingua.

Per rispetto innanzi tutto della nostra lingua italiana, e poi anche della bella lingua inglese.

Ant.Mar.

lunedì 3 settembre 2012

PAROLE INGLESI INTRADUCIBILI(?) IN ITALIANO



Filippo La Porta

Sul Messaggero un articolo di Filippo La Porta introduce il libro, che pur non avendo (ancora) letto consiglio a chiunque, “Cercasi Dante disperatamente” di Massimo Arcangeli, edito da Carocci. Non voglio però dilungarmi su tutto ciò che scrive La Porta, che si può leggere qui; vorrei invece spendere due parole su una piccola riflessione che mi ha stimolato un breve passaggio del suo articolo.

Questo:
“Parole come mobbing o happy hour o shopping sembrano intraducibili, e in verità le soluzioni proposte per tradurre certi termini inglesi, benché ingegnose, non sempre sono convincenti: ad es. per blog iperdiario o bordiario (diario di bordo), per chat chiaccheratoio o cianciaio, per spamming ciberrifiuto o infondizia.”


Cominciamo da Mobbing. Come tradurlo? Pare un impresa ardua, persino per un letterato-intellettuale del calibro indiscusso di La Porta. Ma basta andare su Wikipedia (e qui mi incazzo, perché i nostri intellettuali paiono pigri) per leggere che “mobbing” è un termine comune... in Italia! 

Nei paesi anglofoni, per indicare la violenza psicologica sul posto di lavoro, che in Italia, abbiamo visto, è l'accezione più comune di mobbing, si utilizzano lemmi più specifici: harassment (utilizzato anche per molestie domestiche), abuse (maltrattamento), intimidation (intimidazione).”

Mobbing, è semplicemente una parola inutile, che crea un’astrazione puramente burocratica, che neanche gli inglesi usano. Siamo ridicoli.

Ma la pigrizia di non voler vedere in italiano parole inglesi si vede ancora di più in “fare shopping”, che è semplicemente “far compere”, risemantizzato di poco; cioè, sicuramente con una sfumatura diversa da come lo dicevano i nostri avi, ma una sfumatura. E in “happy hour” che è semplicemente “ora dell’aperitivo”, o meglio “aperitivo” e basta; poco importa che, ormai, c’è l’usanza, presa dal mondo anglosassone (credo), di far pagare meno gli alcolici in quel lasso di tempo. C’è bisogno di una nuova parola per indicarlo? È semplicemente l’aperitivo!

È lo stesso caso di blog; siamo rimasti fregati proprio dal fatto che, usando una parola diversa da “diario”, (blog, appunto), ci siamo convinti che le due parole non possano indicare la stessa cosa, pur con supporto e portata differenti. Per cui vengono proposte traduzioni che, come dice La Porta, “non convincono”. Ma che bisogno c’è di dire “iperdiario”? Diario, semplicemente. La parola preesistente si arricchisce di una nuova sfumatura. Blogger sarebbe forse “diarista”, se proprio vogliamo il sostantivo; altrimenti credo che si direbbe con forma analitica “scrivo (su) un diario” piuttosto che “sono un diarista”. Mi piace immaginare chi legge che storce il naso di fronte a queste parole. Personalmente non partirei dall’idea inglese del “diario” (cioè incentrata sul carattere personale, ma dall’idea di “pubblico. Perciò “giornaletto” mi convince di più, è la traduzione che propongo io; magari con annesso un divertente “giornalettista”.

La riflessione che tutto ciò mi ha stimolato è che proprio l’adottare in primis le parole inglesi ci blocca in una specie di limbo per cui non osiamo più sforzarci di trovare un corrispettivo italiano. Mi sembra che da questi brevi esempi si veda abbastanza bene.

Nel caso di mobbing abbiamo preso una parola che nella lingua originale vuol dire tante cose; tante cose tutte già espresse una per una in italiano. In generale mi pare che si possa accettare una traduzione come “violenza”, oppure, seguendo i francesi che lo dicono "harcèlement", lo tradurrei con "molestia". Insomma un termine di cui bisogna poi chiarire la natura. Ma noi lo usiamo nel senso di "violenza psicologica sul lavoro"; una cosa non poi così nuova, se nella storia ci sono state diverse lotte contadine e operaie... La parola è nuova; e per questo ci siamo convinti nella "novità" del concetto che esprime. 

Nel caso di happy hour, allo stesso modo, ci siamo creati un “oggetto” virtuale, un aperitivo che non è aperitivo, sebbene ne abbia tutta l’aria. Con blog ci siamo creati una distinzione non per forza necessaria. Come Nipote, che per noi è sia maschio che femmina (senza distinzione); mentre per gli inglesi la distinzione conta, e usano due parole per indicare di volta in volta il genere. 

Ovviamente non è sempre così facile tradurre e parole inglesi. La spam è la "posta spazzatura"; non c'è bisogno di inventarsi bizzarre parole composte; ma la versione italiana, secondo alcuni, non può competere in immediatezza con "spam".

Insomma, non dico di tradurre proprio tutto; alcune eccezioni si possono fare, si devono fare. "click", da cui "cliccare", è efficace, persino simpatico, certamente internazionale di sua natura, grazie all'onomatopea che esprime. Ma vorrei che la smettessimo di bistrattare la lingua italiana, e di essere così pigri e supini di fronte alla lingua dei potenti di turno
Mi chiedo il perché di quella valanga di parole inglesi che avremmo potuto tradurre facilmente, e quell’altra più grossa valanga di parole inglesi di cui proprio non avevamo bisogno, per non parlare di quelle che ci siamo proprio inventati noi, perché tutto questo ammasso di inutilità, banalizzazione e servitù è arrivato senza che nessuno se ne sia accorto? Forse proprio perché è stato così veloce che ci siamo intrappolati da soli nella credenza che queste parole che noi percepiamo come nuove debbano necessariamente indicare cose nuove, concetti inesistenti prima, o in Italia.
Vorrei che l’unica cosa che ci rende italiani, la nostra forza di espressione, - in lingua, cucina, arte, architettura, atti - fosse riconquistata. Siate italiani; che è un modo di essere-vivere-mangiare-parlare, non un colore, non una razza. Siate, semplicemente, non omologatevi al modello anglosassone.

La lingua che parliamo è solo uno dei tanti segni della decadenza (quello che so osservare io) di tutti noi come individui completi. Ma si ricollega a come stiamo cambiando le abitudini alimetari; se stiamo raggiungendo i tedeschi e gli inglesi per tasso di obesità; come li stiamo raggiungendo nel tasso di consumo di alcolici, e di come stiamo cambiando politica, verso una privatizzazzione massiccia di beni comuni e statali, come prescrive il più feroce modello liberalista anglosassone. Di come non leggiamo più libri che non siano Best-sellers americani... ecc ecc

Resitenza mentale ci vuole, per restare come siamo, ed evolvere nella NOSTRA direzione, comune agli altri paesi europei, non identica.

Ant.Mar.

domenica 2 settembre 2012

SHOWINISMO E SCIOVINISMO

clicca sull'immagine per trovare un esempio reale di "showinismo"
Cari amanti e conoscenti della lingua italiana, ho una triste scoperta da comunicarvi. L'impensabile è accaduto, un nuovo mostro è nato, si chiama SHOWINISMO.

Non è un semplice errore di scrittura che gira in rete; è proprio una parola inventata, scaturita dall'ignoranza totale degli italiani per quel che riguarda la propria lingua. Un articolo su lapresse.it segnala questo ennesimo e travolgente strafalcione. La parola "sciovinismo", derivante dal francese "chauvinisme" e adattata (eh si, all'epoca se non traducevamo, adattavamo), è stata reinterpretata all'inglese, e per assonanza con "show", è usata nei blog col significato di "esibizionismo".

Avrei dovuto prevederlo quando mi sono accorto del primo segnale in questo senso; cioè quando ho notato che negli scritti anteriori (circa) agli anni 60, si scriveva "choc", alla francese, mentre oggi la stessa parola è scritta in inglese, "shock". 

Era solo il primo segno, lo stesso processo ha portato a "showinismo"; l'inglese attacca anche quelle parole straniere che prima della sua influenza si erano imposte nella lingua italiana. Finché non rimarrà solo lui, l'inglese; o meglio un itanglese sfilacciato e superficiale; un nuovo dialetto che ci porteremo per secoli addosso fino a un nuovo Dante capace di innalzarlo a Lingua, di nuovo.

Esagerazioni o lungimiranza? A volte me lo chiedo; poi trovo "showinismo", e divento, per un momento, uno "sciovinista linguistico".
 
Ant.Mar.