martedì 23 luglio 2013

Rapporto tra lingue straniere e europei

L’Eurobarometro è un’indagine periodica di opinione pubblica nei paesi dell’Unione Europea, promossa dalla Commissione Europea, finalizzata a monitorare lo sviluppo della pubblica opinione tra la popolazione europea.

Dal sondaggio Eurobarometro “Gli Europei e le loro lingue” del 2012 diventa chiaro che il numero di cittadini europei bilingue e multilingue è diminuito rispetto al 2006: appena sopra la metà dei cittadini europei (54%) ( -2% dal 2006 ) è in grado di sostenere una conversazione in almeno un’altra lingua, un quarto (-3% dal 2006) parla almeno due lingue e uno su dieci cittadini può esprimersi in almeno tre lingue.

In considerazione dell’obiettivo della UE che prefigge la conoscenza per ogni cittadino di altre due lingue, accanto alla propria lingua madre, il dati raccolti odierni implicano che è necessario sostenere il multilinguismo e promuovere la diversità linguistica con più forza.

Nel complesso, l’indagine ha mostrato che gli europei hanno una prospettiva molto positiva sul multilinguismo: quasi la totalità degli europei (98%) pensa che la conoscenza delle lingue straniere è utile per il futuro dei loro figli. Inoltre, la maggioranza dei cittadini europei (81%) è del parere che tutte le lingue parlate nell’Unione Europea dovrebbero essere trattate allo stesso modo.
Quasi tre quarti delle persone intervistate concordano con l’obiettivo prefissato dalla UE nel dover conoscere almeno due lingue straniere. Secondo il 77%, la promozione delle competenze linguistiche dovrebbe essere una priorità politica.

La lingua materna più frequente parlate nell’UE  - in conformità con i numeri della popolazione dell’UE – è il tedesco (16%), seguito da italiano e inglese (13% ciascuno), francese (12%), e poi spagnolo e polacco ( ogni 8%). Alla domanda: “Qual è la tua lingua madre” sono state fornite anche risposte come: basco, catalano, croato, danese, galiziano, ungherese, irlandese / gaelica, lussemburghese, maltese, il gaelico scozzese, slovacco, sloveno, urdu e gallese.

In Austria, Finlandia e Irlanda vi è il maggiore aumento di persone intervistate che dicono di parlare almeno un’altra lingua abbastanza bene da essere in grado di sostenere una conversazione. In Slovacchia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Polonia e Ungheria, al contrario, le percentuali tra le persone che sono state intervistate sono notevolmente diminuite.

Si riconoscono differenze significative tra i paesi. Solo in otto Stati membri dell’Unione Europea si è raggiunto l’obiettivo a lungo termine auspicato dall’Unione per la conoscenza pratica dalla maggior parte dei cittadini di almeno due lingue straniere, vale a dire in Lussemburgo (84% ), Paesi Bassi (77%), Slovenia (67%), Malta (59%), Danimarca (58%), Lettonia (54%), Lituania (52%) ed Estonia (52%).

La Germania e l’Italia per esempio non sono tra i paesi in cui la maggioranza della popolazione è in grado di parlare la sua lingua madre e due ulteriori lingue straniere.

mercoledì 17 luglio 2013

Ecco perché l'inglese obbligatorio è un rischio.

LA DECISIONE del Senato Accademico del Politecnico di adottare, a partire dal 2014, l'inglese come lingua esclusiva per le lauree magistrali e i dottorati è stata presa senza alcuna consultazione del corpo docente e a dispetto di una forte opposizione interna.

Una simile decisione travalica le prerogative dell'organo di gestione per due ragioni: in primo luogo è in contrasto con la Costituzione;e poi si configura come una violazione delle regole di governo degli atenei, che in fatto di insegnamento hanno prerogative di indirizzo e di coordinamento: sui contenuti e sui modi dell'insegnamento sono tenuti a favorire l'armonizzazione degli apporti dei docenti nel rispetto della libertà di insegnamento. Tale armonizzazione non può che procedere da un dialogo che metta al centro gli interessi degli studenti e della società e non può avere alcun carattere prescrittivo.

Qualche altra considerazione. Al Politecnico esistono già filoni d'insegnamento in inglese. Basta questo per rispondere all'obiettivo dell'internazionalizzazione dell'università. È sintomatico che la lingua sia l'unico argomento affrontato dal Senato del Politecnico sul terreno della formazione. L'organo di governo non si interroga e non si documenta sulla qualità della didattica. Se lo facesse, riscontrerebbe tra i propri laureati un deficit sul terreno della capacità argomentativae della produzione di pensiero. Non è certo l'inglesizzazione forzata la chiave per affrontare questo ordine di questioni.

martedì 16 luglio 2013

FUORI GLI ITALIANI DAGLI ERASMUS IN INGHILTERRA

Mariastella Gelmini
IL PERCORSO: Tutto comincia più di trent’anni fa. Nel 1980, quando nelle università italiane gli insegnanti vennero divisi tra professori di cattedra, associati e ricercatori, quelli di lingue straniere vennero considerati tra i non titolari di cattedra.

Una decisione contro cui si espresse anche la Corte Europea di Giustizia che, nel 1989, ha riconosciuto come discriminatorie le leggi italiane, le quali negavano ai lettori di lingua straniera perfino l’assicurazione sanitaria e la pensione.

Nel 1995, poi, in risposta alle pressioni dell’Assli (Associazione dei lettori stranieri in Italia), il governo offrì un contratto a tempo indeterminato docenti anglosassoni, ma al tempo stesso riformò il loro status inquadrandoli come “collaboratori linguistici esperti”, fuori dal corpo docenti.

Fino al 2010, quando la ministra Gelmini propose una nuova legge che ha ribadito lo status separato dei lecturers e al tempo stesso estinto tutte le cause legali relative a questa vicenda. 

David Lidington
OGGI: Il ministro britannico per l’Europa David Lidington, durante un’interrogazione parlamentare, ha denunciato la discriminazione subita dai docenti inglesi nelle università italiane definendo il comportamento del nostro Paese “inaccettabile e illegale”.


La Gran Bretagna potrebbe quindi decidere di escludere gli studenti italiani dai propri programmi Erasmus in risposta alle decurtazioni dallo stipendio dei lettori di lingua inglese, previste da una norma voluta dall’ex ministro Gelmini e applicata da diversi atenei italiani.

venerdì 12 luglio 2013

UNIVERSITÀ CATTOLICA: UN CORSO DI MEDICINA INNOVATIVO, MA SOLO SE PARLI INGLESE.



Ormai si è perso il conto delle università italiane in Italia che propongono corsi in inglese. Il primo, e più discusso fu il caso del Politecnico di Milano, in seguito bloccato dal Tar che ha accolto la richiesta di molti docenti. Poi fu il caso dell’Università di Udine, seguita a ruota dalla Ca’Foscari di Venezia, da molti licei – anche classici e scientifici. Tutti cominceranno dal 2014, e ovviamente non poteva mancare la Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica, che offre agli studenti italiani, comunitari e non, l’opportunità di frequentare un corso di laurea in Medicina e chirurgia tutto in inglese.

Il corso di laurea si intitola appunto “Medicine and surgery” (medicina e chirurgia); i posti disponibili sono 52 in tutto, così suddivisi: 30 sono riservati a cittadini italiani e comunitari ovunque soggiornanti e a cittadini non comunitari legalmente soggiornanti in Italia; 20 sono i posti per cittadini non comunitari residenti all’estero; 2 quelli riservati a cittadini cinesi nell’ambito del Programma ministeriale “Marco Polo”. La domanda di partecipazione agli esami di ammissione dovrà essere presentata entro il 5 agosto 2013.

Il corso ha l’obiettivo di formare medici che, per la loro preparazione umana e professionale, siano pronti a operare sia nei Paesi più avanzati sia in quelli in via di sviluppo. Ma in inglese. Abbiamo già denunciato in questo giornaletto il gravissimo problema che la dominanza dell’inglese provoca negli ospedali in Italia (cfr. articolo). L’inglese nella sanità dei paesi dove non si parla inglese rappresenta uno dei risvolti più allarmanti, più crudeli, del cosiddetto “solo inglese”. E invece di risolvere il problema, ci prepariamo a formare un esercito di medici che non sarà in grado di comunicare chiaramente con i malati. E, se c’è una cosa che è fondamentale nel trattamento medico, è proprio il rapporto di fiducia e comunicazione bilaterale tra medico e paziente. 

giovedì 11 luglio 2013

BREVETTO EUROPEO - SQUINZI: "DIFESA LINGUE NAZIONALI IRREALISTICA"



IL FATTO: Lo scorso dicembre L’Ue aveva unificato le regole per il deposito e la registrazione del brevetto unico europeo (cfr articolo). L’idea era di tagliare i tempi di approvazione, dovuti anche, e in parte, alla traduzione, facendo un brevetto europeo in sole tre lingue, ovviamente inglese, francese e tedesco. All’accordo avevano aderito infatti solo 25 paesi su 27 (cfr articolo): L’Italia e la Spagna, i due paesi più agguerriti per quel che riguarda la tutela e rappresentanza dea loro lingua a Bruxelles hanno denunciato, come hanno sempre fatto, il trilinguismo europeo, e hanno deciso di non aderire all’accordo facendo ricorso.

Ma la Corte di giustizia dell’Ue respinse i ricorsi di Italia e Spagna al pacchetto legislativo (sentenza nelle cause riunite C‑274/11 e C‑295/11, Spagna e Italia / Consiglio), ritenendo infondata l’argomentazione dei due Stati. Secondo noi e secondo gli spagnoli, infatti, la tutela conferita da tale brevetto unitario non apporterebbe benefici in termini di uniformità, e dunque di integrazione rispetto al brevetto europeo (garantito dal diritto nazionale). La Corte di giustizia risponde che invece il brevetto unitario sarebbe concepito per conferire una tutela uniforme sul territorio di tutti gli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata, e non vuole quindi arrecare danno al mercato interno di nessuno, né alla coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione. Inoltre, secondo la Corte, non lede le competenze i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non partecipano alla cooperazione rafforzata.

martedì 9 luglio 2013

Sen. Antonio Razzi (PDL). Presentato disegno di legge "Disposizioni in materia di introduzione di corsi scolastici di lingua e cultura italiane attraverso la rete internet per gli italiani residenti all'estero"

Antonio Razzi
Roma, 8 luglio 2013. Il senatore Antonio Razzi, non dimentico dei suoi connazionali all'estero, ha presentato un progetto di legge "Disposizioni in materia di introduzione di corsi scolastici di lingua e cultura italiane attraverso la rete internet per gli italiani residenti all'estero", per consentire un più facile servizio a quanti all'estero tengono che i loro figli imparino la lingua italiana. L'introduzione del sistema telematico è una proposta sensata, ha dichiarato Razzi, economica e capillare. Infatti, la rete arriva ovunque ed evita  lo stanziamento di capitali per la costruzione di scuole ed assunzioni di professori.

DISEGNO DI LEGGE di iniziativa del senatore RAZZI

Disposizioni in materia di introduzione di corsi scolastici di lingua e cultura italiane attraverso la rete internet per gli italiani residenti all'estero
 
ONOREVOLI SENATORI! — Il sistema scolastico e universitario è un settore strategico per i progetti di sviluppo di lungo periodo del Paese.

sabato 6 luglio 2013

CHI DI MASCHILE FERISCE, DI FEMMINILE PERISCE: UNA RIFLESSIONE SUL SESSISMO DELLA LINGUA



IL GENERE DEI SOSTANTIVI: La lingua italiana, come il tedesco e tutte le lingue (almeno) europee, discrimina il genere femminile sin dalla sua stessa grammatica. Fino ad oggi, nei paesi dove il femminismo ha avuto una qualche risonanza (e anche in Italia) il problema è stato affrontato femminilizzando i mestieri e sostantivi ritenuti tradizionalmente prerogativa maschile

Professore-professoressa, ministro-ministra ecc. Nei casi in cui si indica un gruppo di persone composto da entrambi i sessi, si indicano entrambe le finali, il più delle volte mettendo al primo posto il maschile, che è poi la forma “tradizionale” (“tutti/e”), talvolta anteponendo il genere femminile, come sorta di risarcimento dei secoli di dominazione della grammatica maschilista (se una grammatica davvero può essere maschilista). Più recente l’usanza, tutta italiana, di annullare il suffisso indicante il genere e sostituirlo con un asterisco: tutt*. Più economico, rende giustizia non solo del sesso, ma anche della sessualità: come dire, “vedete voi se volete essere definiti al maschile o al femminile”. 

Questa è l’usanza che, iniziata negli anni ’80, ancora oggi in Italia stenta a imporsi, tanto che persino alcune donne non amano essere “declinate” al femminile; forse per una sorta di “vergogna” imposta dalla società maschilista, forse per semplice fedeltà (leggi: abitudine) linguistica. Fatto sta che, a mio modestissimo avviso, questa convenzione, una volta doverosamente imposta in tutti gli scritti della lingua, sarebbe stata in grado, finalmente, di riconoscere sin dal punto più intimo della lingua – la grammatica – la parità dei sessi. Si sarebbe cancellata ogni sottintesa superiorità di uno sull’altro. Così la penso. Ma c’è chi è andato ancora più in là. In Germania, per la precisione.

Luise Pusch
IL ‘FEMMINISMO GENERICO’: Non più di due mesi fa circolò una notizia a cui non diedi molto peso: era la “rivoluzione” grammaticale operata dall’Università di Lipsia, che ha deciso di fare a meno del doppio genere (in tedesco “Professor/in”). In sostanza hanno eliminato la barra obliqua e unito il suffisso femminile alla parola: hanno cioè lasciato solo la forma femminile, e la useranno per rivolgersi anche ai professori uomini. Scusate, volevo dire professoresse uomini. Iniziativa etichettata "femminismo generico".


Quando poco tempo fa lessi la notizia, dicevo, reagii con un’alzata di spalle, non mi colpì granché, sarà perché sono un uomo. Eppure, mi capitò di ripensarci più volte, c’era qualcosa che non mi tornava. Ho quindi approfondito un po’ la cosa, facendo qualche veloce ricerchina su Google, e ho scoperto che, in effetti, è solo un primo passo verso un obiettivo ben preciso: rendere la lingua completamente neutra. Anche l’Enciclopedia Nazionale Svedese, poche settimane fa, ha introdotto nel vocabolario il pronome “hen”, accanto, e in alternativa, al maschile “han” e al femminile “hon”. E così lo Stato di Washington ha approvato di recente una legge che traduce in modo neutro tutti i termini in cui è presente il sostantivo “man”, dato che potrebbero apparire discriminatori.

giovedì 4 luglio 2013

L'INSEGNAMENTO DELLA LINGUA ITALIANA NEL MONDO RISCHIA DI MORIRE



Laura Garavini (PD)

LA CAUSA: All’epoca dei mostruosi tagli del governo Monti (che furono solo gli ultimi e più feroci di una serie di tagli trentennale) ai finanziamenti alle scuole di italiano all’estero, vi fu un incontro al Ministero degli Affari Esteri, proprio per riflettere su come affrontare gli anni a venire avendo meno della metà delle risorse necessarie. Il risultato di cotanta riflessione fu, più o meno: “si è vero, non abbiamo più una lira, ma se ci vogliamo bene e ci sforziamo tutti, ce la possiamo fare.” Tanto che intitolai l’articolo che ne trattava “TANTO FUMO E NIENTE ARIOSTO”. 

Avevo ragione ad essere pessimista? Oggi, a quasi un anno di distanza, vediamo gli effetti di questa scelleratezza:

L’EFFETTO: Laura Garavini, il 28 giugno scorso, ha presentato in Commissione Affari Esteri una interrogazione urgente inerente la Scuola italiana di Asmara, (Fonte) che possiamo prendere tranquillamente come esempio per tutte le altre scuole, come la stessa Garavini lascia intendere. Ma vediamo cosa ha dichiarato: “La normale ripresa dell'anno scolastico presso la Scuola statale italiana di Asmara è a rischio. E lo stato di sofferenza di questa scuola pubblica italiana dimostra come, in generale, l´insegnamento della lingua e cultura italiana all´estero rischi il collasso a causa dei tagli apportati negli anni scorsi dai Governi Berlusconi e Monti”.

“La situazione ad Asmara é aggravata dalle restrizioni previste dalle autorità eritree che
peggiorano ulteriormente lo stato di sofferenza in cui versa l´istituto a causa della riduzione del contingente di docenti italiani all’estero, deliberato dalla spending review dal Governo Monti. L´Eritrea prevede una durata massima di soli cinque anni per i permessi di lavoro, così che molti docenti di ruolo devono rientrare senza poter essere sostituiti, dimezzando di fatto il corpo docente”.

martedì 2 luglio 2013

QUANDO GLI ITALIANI CHIACCHIERANO MANI E DITA FANNO IL DISCORSO.



ROMA — Nel grande teatro all’aria aperta che è Roma, i personaggi parlano con le mani altrettanto che con le loro bocche. Mentre parlano animatamente sul loro cellulare, o fumando sigarette o anche mentre rallentano le loro piccole auto nel traffico dell’ora di punta, gesticolano con un’invidiabile ed elegante coordinazione.


Dalle classiche dita unite contro il pollice che significano “che cacchio vuole da me?" o "Non sono nato ieri" a una mano che viene roteata lentamente, indicando "ad ogni modo…" , vi è una eloquenza del gesto italiano. In una cultura che premia l’oratoria, nulla sgonfia l’aria retorica di qualcuno più rapidamente.
 
Alcuni gesti sono semplici: il lato della mano contro il ventre significa fame, il dito indice sulla guancia significa qualcosa ha un buon sapore, e toccando il proprio polso è un segno universale per “sbrigati”. Ma altri sono molto più complessi. Essi aggiungono una inflessione - di fatalismo, la rassegnazione, stanchezza del mondo – che è una parte dell'esperienza italiana importante come il respirare.
 
Due mani aperte possono fare una domanda vera e propria: "Che cosa sta succedendo?" . Le mani poggiate in preghiera possono diventare una sorta di supplica, una domanda retorica: "Che cosa ti aspetti che faccia?" Chiedi quando un autobus romano potrebbe arrivare, e la risposta universale è lo stringere le spale, un "ehh" e le due mani alzate che dicono: "Solo quando la Provvidenza lo permette."
 
Per gli italiani, gesticolare è del tutto naturale. “Vuoi dire che gli americani non gesticolano? Si parla in questo modo? "mi chiede Pasquale Guarrancino, un tassista romano, freddandosi e mettendo le braccia piatte lungo i fianchi. Lui era seduto nella sua cabina a parlare con un amico fuori, ambedue muovendo le mani in un’elaborata coreografia. Alla richiesta di descrivere il suo gesto preferito, ha detto che non era adatto per la stampa.

CHI INSEGNA IN INGLESE VA PREMIATO (?)



Vignetta di Pat Carra

Sul sito del Sole24ore trovo un articolo intitolato "Chi insegna in inglese va premiato" che, ancora, critica gli argomenti del Tar e di molti docenti del Politecnico di Milano, sull’inglese come unica lingua di insegnamento delle lauree specialistiche. Ne ho parlato già in vari articoli: sia in occasione della proposta del rettore, sia in occasione della sentenzadel Tar. Ma le polemiche continuano, quindi continuo anche io. Prendo due stralci significativi dell’articolo in questione; per leggerlo tutto, clicca QUI.

PRIMA FRASE: "Visto con l'occhio di un economista, questa vicenda appare paradossale per l'assoluta non considerazione da parte dei giudici dei fattori di contesto in cui è stata presa la decisione oggetto di annullamento." 

Appunto, con l'occhio dell'economista. Io, se parlo di economia, corro il rischio altissimo di dire stupidaggini. Ma non ho la pretesa di dire la mia su questioni economiche... non lo so, non lo capisco, lo accetto. Tu, economista, non dire stupidaggini sulle questioni di lingua, per favore. 

PUBBLICITÀ IN LINGUA STRANIERA? BASTA CHE NON SIA ARABO.


La pubblicità oggetto della polemica

IL FATTO: A Bologna, una pubblicità di TIM International ha fatto scattare le polemiche della leghista Borgonzoni su Facebook. Il fatto è che, essendo rivolta agli stranieri residenti, è totalmente scritta in lingua araba, cosa che fa drizzare i capelli alla deputata, dato che, essendo in Italia, “A casa nostra dobbiamo capire quello che viene pubblicizzato e scritto”. La Borgonzoni aveva esplicitamente richiesto l’anno scorso la traduzione obbligatoria in italianopiù grande della scritta straniera”, ma “rimane un vuoto normativo sui cartelloni... Se volessimo adottare il caso più prossimo della giurisprudenza, andrebbero sequestri e sanzionati ognuno con un'ammenda di 516 euro” 

C’è da dire che non sarei affatto contrario alla traduzione sistematica delle pubblicità in lingua straniera, ma “più grande della lingua straniera”? È esagerato anche per uno come me. In Francia, che è un paese ai nostri occhi linguisticamente molto protezionista, questa usanza già c’è: ogni singola frase pubblicitaria – persino le pubblicità di corsi di inglese, spagnolo, italiano – ha un asterisco che riporta, in fondo al cartellone, in piccolo, la traduzione francese. Insomma, nemmeno i francesi mettono il francese più grande della frase pubblicitaria scelta dall’azienda!