sabato 6 luglio 2013

CHI DI MASCHILE FERISCE, DI FEMMINILE PERISCE: UNA RIFLESSIONE SUL SESSISMO DELLA LINGUA



IL GENERE DEI SOSTANTIVI: La lingua italiana, come il tedesco e tutte le lingue (almeno) europee, discrimina il genere femminile sin dalla sua stessa grammatica. Fino ad oggi, nei paesi dove il femminismo ha avuto una qualche risonanza (e anche in Italia) il problema è stato affrontato femminilizzando i mestieri e sostantivi ritenuti tradizionalmente prerogativa maschile

Professore-professoressa, ministro-ministra ecc. Nei casi in cui si indica un gruppo di persone composto da entrambi i sessi, si indicano entrambe le finali, il più delle volte mettendo al primo posto il maschile, che è poi la forma “tradizionale” (“tutti/e”), talvolta anteponendo il genere femminile, come sorta di risarcimento dei secoli di dominazione della grammatica maschilista (se una grammatica davvero può essere maschilista). Più recente l’usanza, tutta italiana, di annullare il suffisso indicante il genere e sostituirlo con un asterisco: tutt*. Più economico, rende giustizia non solo del sesso, ma anche della sessualità: come dire, “vedete voi se volete essere definiti al maschile o al femminile”. 

Questa è l’usanza che, iniziata negli anni ’80, ancora oggi in Italia stenta a imporsi, tanto che persino alcune donne non amano essere “declinate” al femminile; forse per una sorta di “vergogna” imposta dalla società maschilista, forse per semplice fedeltà (leggi: abitudine) linguistica. Fatto sta che, a mio modestissimo avviso, questa convenzione, una volta doverosamente imposta in tutti gli scritti della lingua, sarebbe stata in grado, finalmente, di riconoscere sin dal punto più intimo della lingua – la grammatica – la parità dei sessi. Si sarebbe cancellata ogni sottintesa superiorità di uno sull’altro. Così la penso. Ma c’è chi è andato ancora più in là. In Germania, per la precisione.

Luise Pusch
IL ‘FEMMINISMO GENERICO’: Non più di due mesi fa circolò una notizia a cui non diedi molto peso: era la “rivoluzione” grammaticale operata dall’Università di Lipsia, che ha deciso di fare a meno del doppio genere (in tedesco “Professor/in”). In sostanza hanno eliminato la barra obliqua e unito il suffisso femminile alla parola: hanno cioè lasciato solo la forma femminile, e la useranno per rivolgersi anche ai professori uomini. Scusate, volevo dire professoresse uomini. Iniziativa etichettata "femminismo generico".


Quando poco tempo fa lessi la notizia, dicevo, reagii con un’alzata di spalle, non mi colpì granché, sarà perché sono un uomo. Eppure, mi capitò di ripensarci più volte, c’era qualcosa che non mi tornava. Ho quindi approfondito un po’ la cosa, facendo qualche veloce ricerchina su Google, e ho scoperto che, in effetti, è solo un primo passo verso un obiettivo ben preciso: rendere la lingua completamente neutra. Anche l’Enciclopedia Nazionale Svedese, poche settimane fa, ha introdotto nel vocabolario il pronome “hen”, accanto, e in alternativa, al maschile “han” e al femminile “hon”. E così lo Stato di Washington ha approvato di recente una legge che traduce in modo neutro tutti i termini in cui è presente il sostantivo “man”, dato che potrebbero apparire discriminatori.


C’è da dire che un merito, un grande merito, dell’iniziativa messa in atto a Lipsia, c’è, ed è quello di essere “un cambiamento che obbliga le persone a pensare, a riflettere sul dominio maschile del linguaggio e sull’intrinseca discriminazione”, come afferma Luise Pusch, una delle linguiste più sensibili alla questione. Questo è innegabilmente vero: immaginate di dover chiamare il vostro professore “professoressa”, o il presidente Letta “presidentessa”. Fa riflettere, eccome! Fa riflettere soprattutto gli uomini, che sentono su sè stessi, all’improvviso, tutta la carica sessista dei sostantivi solo al maschile. Chi di maschile ferisce, di femminile perisce…

SI, MA… : Eppure c’è qualcosa che non mi torna. Chiamare “professore” una professoressa è ingiusto, e invece l’inverso è giustizia? Mi sembra piuttosto una vendetta, cioè niente di più lontano dalla giustizia. Ora, io non sono un filosofo-giurista, ma… mi sento di affermare che due ingiustizie non fanno una giustizia. Se, come ritengo, rendere evidente la presenza di entrambi i sessi, col vecchio sistema della barra obliqua, portava all’uguaglianza grammaticale (perché di questo si tratta: puoi cambiare tutte le parole che vuoi, ma quel che contano sono i fatti, stipendi inferiori, maggiori difficoltà nel trovare lavoro, aggressioni e stupri…), così invece non si fa che discriminare gli uomini. 

“E allora?” Mi risponde qualche femminista agguerrita. E allora io sono contro qualsiasi tipo di discriminazione, e anche tu, femminista cara, dovresti: se le donne sono la metà della popolazione mondiale, non dimentichiamo che l’altra metà è fatta di uomini. “Le parole sono una forma di potere”, fa notare Nancy Heitzig, professoressa di sociologia alla St. Caterine University che saluta positivamente l’iniziativa. “Quando la lingua ha connotazioni di genere, anche se non ci facciamo caso, il messaggio implicito è che si tratti di un mondo al maschile”. Vero (in parte). Ma allora, è vero anche nell’altro senso! E ancora “Ogni frase che si riferisce alle persone, ma usa il maschile, dà origine a un’associazione nella mente di chi ascolta e questo è uno svantaggio per le donne”, afferma Luise Pusch. E quindi, non sarà forse vero anche nel senso inverso?

Insomma, se l’uguaglianza non c’era prima, non è certo escludendo il maschile che la si raggiungerà: non si fa che mettere più peso sull’altro piatto della bilancia… e l’ago segnerà la parte opposta, mai il centro. Già, il centro: in questo caso, “il neutro”.

Nancy Heitzig (a sinistra)
IL NEUTRO: Se non sono un filosofo-giurista, non sono neanche un filosofo-linguista: ma di filosofia del linguaggio ne so qualcosina in più. Sarà che sono un patito del secondo Wittgenstein, e che la sua teoria sugli “inganni del linguaggio” mi ha convinto particolarmente… ma mi chiedo: se l’obiettivo è il neutro, allora che bisogno c’è di fare tutto questo? Questo genere di iniziative, mi pare, sta prendendo sempre più la forma di una guerra fra i generi… la più spaventosa delle guerre immaginabili.

In parole povere – e qui siamo proprio alla base basilare e basica del pensiero sul linguaggio (De Saussure) – le parole non hanno nessun significato “innato”. Nessuno. Hanno senso solo in rapporto con le altre, solo nella differenza che hanno con le altre. Ma già sto complicando il discorso. Mettiamola così: il concetto di “arbitrarietà” del linguaggio è quel concetto che ci dice che: la parola “tavolo” significa “tavolo” solo perché noi le diamo quel significato. Infatti, per un inglese, la parola “tavolo” non significa proprio nulla, non è nemmeno una parola. Chiaro no? da questa semplicissima banalità sono nate fior fiore di discussioni teorie e pensieri filosofici che non sto a dirvi. Ma che il “tavolo” sia un nome maschile, e “sedia” un nome femminile, rientra in questa logica: è così solo perché lo decidiamo noi, per convenzione. PER CONVENZIONE.

Capite dove voglio arrivare? Facciamo intervenire Wittgenstein – il cui pensiero, ahimè, ha concetti molto più complessi e confusi. In due parole: inizialmente il buon filosofo, allievo di B. Russel (il grande logico matematico), elaborò una teoria secondo cui il linguaggio umano era esattamente lo specchio della realtà, e che la carica di verità o falsità di un’affermazione era quindi “esterna” all’affermazione: se io dico “il tavolo è rosso” non c’è altro modo per sapere se dico la verità che guardare il tavolo, e verificarne il colore. Banale, anche questo concetto, no?

Ludwig Wittgenstein
Già: ma se una lingua ha un diverso sistema di classificazione dei colori? Se io chiamo arancione ciò che per te è rosso, non ci potremo mai mettere d’accordo: eppure la realtà (la presenza del tavolo) sta lì, è oggettiva. Oppure: se io dico che ho mal di denti, come faccio a sapere che il mio mal di denti sia lo stesso che provi tu? Non posso, semplice. Ecco allora il “secondo” Wittgenstein, che proprio dal problema dei colori riformula e distrugge la propria teoria giovanile. 

Ma mi sono dilungato troppo… insomma, qui entra il concetto degli “inganni del linguaggio”: il linguaggio ci sembra che descriva la realtà per quello che è, ma non è affatto vero! Ci sembra che il linguaggio rifletta perfettamente la realtà; e se la realtà è maschilista – eccome se lo è – allora lo è anche il linguaggio. Ma se tutto questo è un inganno, e se il linguaggio è arbitrio per eccellenza… basta DECIDERE che “ministro” sia neutro. Così come, è vero, si potrebbe anche decidere che “ministra” sia neutro e adottare solo questa forma…

SI, PERÒ… : Dopo tutta questa pesante filosofia, un po’ di letteratura, per svagarci. 

Una lingua che unisce gli opposti in modo da annullare ogni possibile contrasto è già stata immaginata… da un certo George Orwell, in un libro intitolato 1984. E quella storia non finiva per niente bene...
 
Ant.Mar.

1 commento:

  1. L'attuale convenzione secondo la quale "ministro" è maschile è troppo radicata e decidere che "ministro" sia neutro sarebbe come il plurale maschile per il generico-il Generico-. Unire gli opposti per eliminare i contrasti? No, ma i contrasti non dovrebbero vedere l'ago della bilancia pendere inesorabilmente verso l'uno dei due poli. Dovrebbero persistere (ed esistere sempre) le due forme maschile e femminile,senza che nella realtà l'uno prevarichi sull'altro.

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